20 March 2016

Testo di Gianluca Panareo per COME CLOSER. IPOTESI PER UNA WUNDERKAMMER DELLE VANITÀ.


Gianluca Panareo (Pesaro, 1988), L'uovo di San Girolamo, 2013.
Fotografia digitale, stampa inkjet su pvc, acciaio, 190 x 130 cm
Edizione 3 + 2 p.d.a.


Trovo che quella della Wunderkammer sia un'allegoria eloquente della condizione umana, del dilemma ancestrale tra la curiosità della coscienza e il mistero metafisico del creato.
Da sempre l'essere umano è alla ricerca di un limite che dia un senso alla sua esistenza in rapporto alle infinite possibilità dell'infinito. Da questo punto di vista la creazione di una camera delle meraviglie assume il significato simbolico di un limite fisico alla sconfinata mole del reale, dare un corpo all'impalpabile, alle idee, alle sensazioni, allo spirito e all'intelletto. Ogni oggetto diventa testimone e testimonianza del pensiero, una vera e propria memoria esterna che assurge a pietra miliare di un percorso intellettuale e spirituale allo stesso tempo.

La Wunderkammer diventa quindi luogo indispensabile dell'identità, di una vanità necessaria poiché specchio materiale della nostra esistenza. Essa costituisce un guscio di difesa dal nichilismo che può essere generato dal confronto con l'assoluto e con l'universo, e allo stesso tempo realizza un corpo ideale nel quale possiamo identificarci, sentirci e vederci.

Giualuca Panareo, 2015


16 March 2016

Testo di Valter Luca Signorile per COME CLOSER. IPOTESI PER UNA WUNDERKAMMER DELLE VANITÀ.


Quando starò in piedi di fronte ad un infinito, dietro di me sarà il corpo e con me il pensiero.
Tutto è vanità e nulla è vanità? Ciò che tramuterà volgerà in trasparenza, ciò che emanerà sarà respiro.
La malinconia rocciosa frantumerà in particella e mescolandosi col vento esalerà in universo.
Ovunque ho lasciato vanità, sotto cumuli di terra, fosse vuote, legata agli alberi, nei fiumi lavata.
Essa diverrà quel che sempre è stata e sempre riapparirà.
Un loop eterno che ruota come i satelliti ricordano, ripassando su inesauribili punti dove materia implode ed espande. Non suono ma eco, non corpo ma immagine, ma per questo memoria perenne. E quando rivolgerà il suo sguardo ricordandomi che al tempo appartengo, gioirò di far parte di un piano sconfinato nella cui corsa ho già ceduto me stesso.

VLS

Dicembre 2015



Testo di Gianluca Panareo e Gilberto Santini per COME CLOSER. IPOTESI PER UNA WUNDERKAMMER DELLE VANITÀ.


VIA CRUCIS

Conversazione tra Gilberto Santini e Gianluca Panareo



GS: Stazione 1: “Gesù è condannato a morte”. Cosa significa oggi essere condannati? Cosa ci condanna oggi a morte e perché? E cosa è “la morte” (per Gesù ad esempio era il compimento del suo destino, del suo senso)?
Allora, che fatto d'arte ti evoca?

GP: Cosa significa essere condannati oggi? a morte?

La morte è la materializzazione dell'assenza. Quindi per parlare di lei bisogna per forza parlare di ciò che si assenta. La vita.

Essere condannati a vivere. E poi sparire.
La natura ha un senso talmente metafisico da non poter essere sopportato dalla coscienza.
Quando avevo 5 o 6 anni ho provato ad immaginare l'infinità dell'universo, come se fossi su un'astronave, vedendomi sfrecciare pianeti e galassie accanto, ancora e ancora e ancora e ancora. Ho avuto un senso di vertigine talmente forte che sono svenuto.
Ogni essere umano dal momento in cui nasce è condannato a vivere nel mistero di un'esistenza senza senso, senza certezze, scaraventato nel mondo alla cieca, sballottato tra istinti, emozioni e pensieri.
Per questo siamo alla continua ricerca di modelli, di un qualcosa che argini l'infinito, di un limite al vuoto, all'immensa grandiosità del creato.
I neonati hanno bisogno di sentirsi stretti nelle fasce, altrimenti piangono.
Religioni, ideologie, convinzioni, filosofie, mode. Un modo per perpetuare quel bisogno di limite che è la prima cosa che tutti sentiamo. Il nostro primo alito di coscienza è il bisogno di un limite, di una costrizione che ci dia il conforto della dimensione.

La prima stazione della via crucis è la nascita. È oggettivamente il nostro primo passo verso un cammino che porta alla morte.
Un cammino caratterizzato dall'impietosa neutralità della natura, disseminato di prepotenze strumentali alla sopravvivenza, alla continua ricerca di un sollievo che può provenire soltanto dall'altro.
Noi sentiamo di esistere solo quando c'è qualcun altro, l'altro è il nostro limite necessario, il nostro metro di confronto con l'esistenza. L’altro è nostro sollievo e croce.
Come nella Via Crucis l'altro è sia misericordioso che indifferente, sia amico che carnefice. La Via Crucis non è soltanto la storia di Cristo ma la storia di tutte le persone che la compongono.
È la storia dell'animale politico che è in noi, del nostro rapporto con l'altro nella ricerca di un senso.
A noi la scelta di chi essere. Spettatori, attori o carnefici. Scegliamo con le nostre azioni.
Da qui una considerazione allegorica della società. Cos'è la società se non la formalizzazione estrema (con la legge e la morale) di quei limiti che ci danno conforto? che ci danno un obiettivo e quindi letteralmente un senso (di marcia)?

Folla. Nella via crucis non si nota mai la folla, forse la si inizia a considerare come elemento solo con la comparsa dei film, la folla urlante sulla strada del Golgota, ma nella rappresentazione canonica la folla è esclusa poiché è il visitatore stesso folla.
La folla come personaggio spettatore, che accetta lo spettacolo perché è abituata ad accettare la dottrina. Ad accettare la norma, la normalità, la sicurezza, ad accettare il limbo rassicurante dei cordoni, dei legami, della vicinanza, della fede. Perché il creato è troppo grande per la nostra testa, e abbiamo sempre bisogno di un punto di vista. Di un argine che ci distragga dall'infinito che ci circonda.

Abbiamo bisogno di qualcosa che ci inganni, che ci costringa. Perché l'infinito è lancinante e doloroso.

Via Dolorosa. Il dolore è quindi verità. Il dolore è ciò che ci riporta al mondo, che sbaraglia ogni inganno di normalità e ci lascia lucidamente nel reale. Il dolore trascende anche la convenzione più arcaica come il Tempo, il dolore è presente. Il dolore è corpo.
Nel dolore della realtà arriviamo a comprendere la radice della necessità dell'altro perché arriviamo a comprendere noi stessi. Il dolore è l'incontro con noi stessi.

Ama il prossimo tuo come te stesso.

Quando sai cos'è il dolore sai anche cos'è l'amore. (E da qui si potrebbe aprire un interessante capitolo sull'odio).

La ricerca della verità è la via dolorosa. La croce come strumento di verità, di vivido contatto con il creato.

Quindi cosa significa oggi essere condannati a morte?
Secondo me significa essere coscienti della realtà. Rifiutare gli schemi contenitivi della società che ci rende folla, gli inganni della sopravvivenza, uscire dal meccanismo della norma per cercare la verità, col rischio di esserne stritolato.
Cristo stesso ci invita alla disobbedienza del pensiero oppressivo reiterando il peccato originale della conoscenza, venendo per questo condannato al dolore.

Essere condannati a morte significa essere condannati a vivere senza inganni, senza limiti, senza le strutture rassicuranti dello status quo. Significa essere coscienti del mistero dell'esistenza, dello sconforto di un vuoto che ci circonda e di cui siamo parte, che può essere abbracciato solo dalla meraviglia e riempito con l'amore.

Questa riflessione mi evoca un fatto fisico, un'immagine “scientifica”. L'immagine di un uomo nello spazio, un astronauta alla deriva nell'universo. Impossibilitato a compiere il minimo movimento in qualsiasi direzione senza un appiglio materiale o un propulsore esterno.
Un corpo che senza la tuta pressurizzata che lo racchiude esploderebbe per l'assenza di pressione, per l'assenza di un corpo esterno che lo contenga nel vuoto infinito.
L'essere umano ha un fisiologico bisogno di integrità e per questo è destinato alla costruzione di strutture in grado di contenerlo, ma che allo stesso tempo lo condannano ad avere un perenne rapporto indiretto con la realtà, alla necessità di un filtro, di un'interpretazione.


2016




Testo di Ivan Lupi per COME CLOSER. IPOTESI PER UNA WUNDERKAMMER DELLE VANITÀ.


La Vanità, quel territorio patologico ricco di insidie che se auto-alimentato fuori misura estende la visione di se' stessi sugli altri inducendo a perfezionarla a livelli estremi. Cosi se ci presumiamo perfetti esigiamo la medesima perfezione nell'altro. Vanità e potere insieme hanno dato risultati disdicevoli nel corso della storia. Vanità è fondamentalmente auto-presunzione che denota profonda debolezza specialmente nel momento in cui il suo germogliare esige la conferma dell'altra parte, che sia singola o provenga dalle masse.
Cosi per una causa apparentemente effimera e caduca la razza umana ha saputo partorire orrori che di effimero continuano nel tempo ad avere ben poco. A Sua immagine e somiglianza è una delle frasi più vanitose che siano mai state scritte. Genesi 1: 26/28.
Vanagloria. Vanidentità. Vanitalgia.

Ivan lupi

Londra 29 dicembre 2015




Text by Lior Herchkovitz for COME CLOSER: EXPERIMENTING WITH A WUNDERKAMMER OF VANITIES.


Humanity is confusing between self-improvement and vanity. By doing so, it has created a dangerous form, which is impossible to attain in life. Creating an exhibit of one's vanity is as difficult as kissing your own lips. When you are trying to focus on it, it is oddly elusive. It always slips away like the pursuit of a dog who is trying to get hold on his own tail.


Lior Herchkovitz, 2016





Testo di Pier Giorgio De Pinto per COME CLOSER. IPOTESI PER UNA WUNDERKAMMER DELLE VANITÀ.


Ciao Mario, pensando a quanto da te scritto sulle vanità dell'uomo, ho visto quest'ultimo andare incontro a se stesso; ad infrangersi contro quello specchio illusorio dallo stesso uomo creato. Simbolo per eccellenza di tutte le vanità, lo specchio sarà protagonista della mia installazione. Riprendendo il titolo di un film del 1927 di Jean Epstein, l'installazione avrà come titolo "La glace à trois faces". Farà riferimento all'idea di innamoramento dell'uomo verso e su ogni superficie specchiante e riflettente che lo attrae in modo così prepotente fin dagli albori della vita. Farò riferimento a specchi reali e virtuali: dagli specchi d'acqua su cui si riflette Narciso per morirne di sgomento ed attrazione, alla superficie interattiva dello smartphone che si lascia sfiorare con le dita di chi su di esso si riflette. Una superficie che è una perfetta simbiosi tra reale e virtuale e che, per questo motivo, ammalia e annichilisce i sensi dell'uomo. Lo stesso Epstein ricorda "La realtà si ispessisce di metafisica, si ripiega su se stessa, si raddoppia senza decidersi, come il mio volto davanti ad uno specchio: siamo due, un due unico" (Epstein, 1922 b, pp.119-120). Tale carattere bifacciale è proprio di quella che Epstein battezza come "lirosofia", ossia la nuova forma di conoscenza che unisce le modalità del sapere razionale (la conoscenza di ragione) a quelle della percezione sentimentale ed emozionale del mondo (la conoscenza d'amore) derivate dalla "fatigue" e dalla valorizzazione del subconscio. Secondo Epstein la fatigue non è una patologia ma rappresenta anzi, un "nuovo stato di salute dell'umanità", tanto che "l'uomo non è mai apparso così bello, così capace, così energico come oggi. " (Epstein 19221 b, p.46.) Quale migliore definizione si potrebbe mai trovare rispetto a quella sopracitata per definire le superfici specchianti di tutti gli specchi virtuali che ogni giorno consultiamo e si cui ci affacciamo per leggere noi stessi e il mondo? Ulteriore esercizio: se sostituiamo il termine "lirosofia" con il termine "Facebook" avremo la migliore definizione dela maggiore vanità dell'uomo contemporaneo, Facebook a tutti gli effetti unisce le modalità del sapere razionale a quelle della percezione sentimentale ed emozionale ovvero conoscenza di ragione e conoscenza d'amore.


Pier Giorgio, 2016